Si fa presto a dire “benessere animale”
Forse neanche i nostri animali stavano meglio quando si stava peggio. Cioè in quella fantasia tra Heidi e il Mulino Bianco che immaginiamo essere stato l’allevamento di una volta. Quando gli animali erano liberi di brucare l’erba dei prati, quegli orribili lager che sono gli allevamenti intensivi non esistevano ancora, e il rapporto fra noi e il Creato era più umano. La fantasia regge finché il passato non lo incontriamo in carne e ossa, il che naturalmente non avviene mai. Almeno “in ossa”, però, io quel passato l’ho incontrato. Non per questo sono diventato un fan degli allevamenti intensivi, ma ho almeno capito che le cose sono un po’ più complicate. E quanto la nostalgia possa colorare di rosa le cose del passato, e di grigio quelle del presente. Un fenomeno che possiamo ritrovare tale e quale non solo nel nostro rapporto con le moderne tecnologie agricole e alimentari – non a caso tenute accuratamente nascoste dal marketing delle aziende – ma con altre innovazioni che popolano sempre più numerose il nostro mondo.

Non avevo mai visitato un museo di anatomia patologica degli animali domestici. Anzi, non avrei mai neppure immaginato che ne esistesse uno. Invece presso la facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Bologna, a Ozzano dell’Emilia, uno ce n’è. È il più antico al mondo, e custodisce quasi 3000 preparati, molti dei quali risalgono al Settecento, ancora custoditi in grandi armadi vetrati donati da Giuseppina Bonaparte. È un museo bellissimo, almeno per chi ha lo stomaco per apprezzare quei depositi di passate sofferenze che sono i musei di anatomia patologica (cioè quasi nessuno, perché sono nati per aiutare gli studenti a riconoscere i segni delle malattie).
Mentre mi aggiro fra mali di ogni genere documentati da mostruosità impagliate, parti anatomiche a secco o sotto spirito, modelli in cera o in creta di tumori e infestazioni di parassiti, chiedo al professor Giuliano Bettini, che mi accompagna, se gli animali stessero meglio allora, quando pascolavano liberi, oppure se stanno meglio oggi, nei famigerati allevamenti intensivi. “Venga con me”, mi fa. E mi porta a vedere un cranio di vacca esposto per mostrare i segni di una malattia sulle mandibole, invitandomi però a guardare la fronte dell’animale. Dove, proprio al centro, c’è un buco grosso come un noce. “Una volta gli animali nei macelli venivano uccisi spaccandogli la testa con un colpo di mazza violentissimo” mi spiega. Dev’essere vero, se l’etimologia di “ammazzare” – ci spiega il vocabolario – è proprio “colpire con una mazza”.

I mostri che vengono dal passato
Accortosi del mio interesse, il professore mi porta a vedere la colonna di un cavallo da tiro con quasi tutte le vertebre fuse tra loro per l’immenso sforzo di tanti anni. Oggi agli animali non chiediamo più di faticare al posto nostro. Poi il calcolo intestinale – sempre di cavallo – grande (e pesante) come una palla di cannone. L’alimentazione era quella che era, spesso troppo ricca di calcio, e i cavalli non si curavano. Poi vari modelli in cera di vitelli, pecore e persino tacchini coperti di pustole del vaiolo (il vaccino non c’era).
Ma i pezzi forti della collezione sono i “mostri”, animali nati con atroci malformazioni. Un feto di maiale con due teste, un altro con una testa e due corpi, un vitello con un pezzo di addome e due zampe cresciuto sopra il collo, uno con un occhio solo, più pecore con i crani orribilmente deformati, diversi esemplari di animali nati fusi tra loro. I mostri sono così tanti – almeno metà dei preparati – che mi sorge il dubbio che quei vecchi professori di veterinaria fossero dei tipi un po’ morbosi. Il professore mi spiega invece che in passato i problemi dello sviluppo fetale erano molto più frequenti. Un po’ per effetto delle erbe selvatiche velenose che capitava spesso di mangiare (così devo dire addio anche al mito della tenera erba dei prati). Un po’ perché gli animali si accoppiavano spesso tra consanguinei, quindi l’incidenza delle malattie genetiche si impennava (così rivaluto pure l’inseminazione artificiale).

Non esistono paradisi (e neanche inferni)
Non vi racconto di questi orrori per dimostrare che gli allevamenti intensivi sono un paradiso, anche se il professor Bettini mi assicura che i nostri animali sono molto più sani di quelli di una volta. Vorrei solo riflettere con voi sul fatto che la nostra percezione dell’innovazione può essere terribilmente semplificatrice. Ci spinge a immaginare un inferno (oggi) e un paradiso (ieri) anche se la realtà è sempre molto più complessa, e pezzi di inferno e di paradiso si trovano quasi sempre a convivere nella stessa epoca e negli stessi luoghi. Una vacca che pascolava libera su un alpeggio aveva probabilmente un vita più interessante di una che passa tutta la vita in due metri quadri di stalla, ma ogni notte magari era terrorizzata dai lupi. I mangimi selezionati di oggi non producono la carne più buona del mondo, ma così gli animali non rischiano di brucare la pianta sbagliata. I grandi allevamenti intensivi inquinano, ma sui pascoli abbandonati è tornata la foresta (30.000 ettari in più all’anno solo in Italia). Potremmo andare avanti a lungo, e continuare l’elenco dei vantaggi e degli svantaggi del vecchio rispetto al nuovo di quasi ogni innovazione abbia cambiato la nostra vita. Dimostrando che il passato non era un Eden, e il presente non è la fine del mondo.
Non scarichiamo sull’innovazione colpe che sono nostre
Forse il problema dell’impatto ambientale della filiera della carne non è il tipo di allevamento che facciamo oggi, ma il fatto che di carne ne vogliamo produrre molta di più che in passato, quando eravamo molti di meno e di carne se ne mangiava pochissima.
Forse i nostri problemi alimentari non nascono dalla carne, ma dal fatto che ne mangiamo troppa: l’ultimo anno in cui il consumo medio italiano è stato in linea con le raccomandazioni dei nutrizionisti è stato il 1957.
Forse il problema della sofferenza degli animali negli allevamenti non è la data di invenzione di una tecnologia, ma la cura con cui è stata pensata. Oggi ci sono anche robot che mungono la vacca solo quando lo sceglie lei, senza che aspetti con le mammelle doloranti l’arrivo del fattore all’alba o a fine giornata.
E poi naturalmente c’è il problema etico: è lecito uccidere altre creature senzienti? Ma questo è un dato universale della biosfera. E un altro segno che bene e male sono sempre legati l’uno con l’altro.
Spesso inestricabilmente.