L’innovazione vista da un sottomarino
Quando mi è stata data la possibilità di un’esperienza unica – un’immersione su un sottomarino della Marina Militare – mi sono fatto un sacco di domande. È giusto parlare di armi in televisione? Raccontare di un’innovazione importante ma che può essere usata per uccidere delle persone? E come farlo senza rischiare di esaltare la guerra? Naturalmente non ho resistito e sono andato, ed è stato interessantissimo. Ma l’immersione nelle acque del Golfo di Taranto è stata anche l’occasione per riflettere su un tema più grande, non facile, e troppo spesso eluso. Da chi racconta l’innovazione, e da chi la vuole conoscere. Ecco quello che ho pensato. E che cosa mi ha convinto.

Uno dei piccoli privilegi del mio lavoro è la possibilità di andare in posti normalmente inaccessibili. Negli anni sono stato nel caveau dell’oro della Banca d’Italia e nella banca dei semi alle isole Svalbard, ho passato due giorni negli archivi della Repubblica di Venezia e una settimana con una tribù di cacciatori raccoglitori della Tanzania (prima che vi facciate strane idee, confesso che quasi tutto il tempo lo passo davanti a uno schermo, come tutti).
La settimana scorsa sono stato su un sottomarino della nostra Marina, il “Salvatore Todaro”. Un pescione d’acciaio lungo 57 metri, che a vederlo da vicino fa quasi paura. Forse perché il sottomarino è un’icona della Guerra Fredda, e tutta la mia cultura sull’argomento si basava su Caccia a Ottobre Rosso il film con Sean Connery.
Ho fatto la mia immersione di qualche ora ben protetto da 1600 tonnellate di tecnologia sofisticatissima, su un mezzo del costo di mezzo miliardo di euro, capace di portare una trentina di uomini (e adesso anche di donne) in giro per il Mediterraneo per settimane, senza farsi vedere o scoprire da nessuno. E in grado, con i suoi siluri, di affondare in pochi minuti qualsiasi nave.
Sul “Todaro” ho passato una giornata in cui la mia attenzione non si è riposata mai. Mi hanno fatto vedere come ci si muove e si sopravvive in un ambiente ostile quanto lo spazio siderale. Mi hanno spiegato la filosofia di impiego dei sottomarini: nessuno deve mai sapere dove sono, né se ci sono. Ho capito la professionalità pazzesca dei sommergibilisti, capaci ad esempio di capire esattamente cosa succede sopra e sotto il mare nel raggio di decine di miglia solo ascoltando dei suoni. Ho ammirato la loro calma e il loro buonumore in condizioni fra le più difficili che abbia mai visto.
Ma… era giusto mostrare il mio entusiasmo per un’arma, e così letale?

Bella domanda…
Il “comune sentire” fra chi fa il mio mestiere è che no, di innovazioni militari è meglio non parlare. Non è bello. Si corre anche il rischio di sembrare dei Dottor Stranamore. Infatti non se ne parla quasi mai, almeno sui media mainstream. Per un complesso di ragioni, alcune buone e altre meno buone.
Fra quelle buone, è che c’è poco da celebrare nel fatto che ci possa essere bisogno di arrivare a uccidere qualcuno. E poi la tentazione della retorica guerrafondaia è sempre dietro l’angolo. Non a caso, anche nelle forze armate serie (come le nostre) delle armi si parla poco, con rispetto e cautela, nel modo più sobrio possibile. Anche in Marina, mi è sembrato, scelgono giovani con la testa sulle spalle e non certo teste calde.
Fra le ragioni meno buone, c’è un retaggio politico-ideologico degli anni della Guerra Fredda (che ha però radici più che comprensibili negli anni del Fascismo). Il pacifismo era spesso anche uno schierarsi, quando non era una manifestazione di un’utopia ingenua. Si è così radicata in Italia una tenace riluttanza a riconoscere che anche le armi sono – e sono state – una garanzia della nostra libertà. E questo ha avuto l’effetto paradossale di lasciare ogni decisione sugli investimenti al cosiddetto “complesso militare-industriale”, il connubio tra committente pubblico e fornitore tanto inevitabile quanto potenzialmente opaco. Il tutto praticamente senza discussioni – magari invece necessarie – nella società civile. In un paese che non si vergogna di parlare di armi, come la Gran Bretagna, non è così. Delle defence review del governo, del budget per la difesa e dell’acquisto dei grandi sistemi d’arma si parla sui giornali e in televisione.
Il silenzio dei militari
Di riflesso, la stessa riluttanza viene di fatto condivisa dalle stesse forze armate italiane, abituate a tenere un profilo bassissimo. Preferiscono parlare delle missioni di pace o del contributo alla protezione civile, più che del loro primo compito, che è quello di poter essere abbastanza forti da dissuadere i paesi che volessero attentare alla sovranità o alla libertà del nostro paese. Che non sono pochi, in un momento storico di rinnovato confronto fra democrazie e regimi autoritari.
Il risultato, quando di un nuovo sistema d’arma si discute, è la difficoltà a far valere le proprie ragioni. Nell’infinita discussione sull’opportunità di acquistare o meno gli F35, i costosissimi caccia di ultima generazione, si è ad esempio continuato a tacere forse la principale ragione dell’acquisto, che si nasconde nella seconda parola del nome di questi aeroplani, che è Joint Strike Fighter: strike, cioè attacco. L’F35 è capace di penetrare profondamente in territorio nemico eludendone le difese – è un aereo “invisibile” – per bombardare obiettivi strategici. Se necessario con ordigni nucleari (quelli americani stoccati anche nelle nostre basi). Più che un caccia per la difesa aerea, come viene sempre presentato, l’F35 è una chiave della nostra deterrenza: se ci attacchi, noi siamo in grado di colpirti al cuore. Una chiave quindi di quell’equilibrio strategico che scoraggia gli altri paesi dal tentare avventure militari. Anche il sommergibile sul quale sono stato, uno dei quattro della sua classe acquistati dall’Italia, ha di fatto lo stesso compito: scoraggiare attacchi all’Italia dal mare con un’arma letale capace di cogliere di sorpresa qualsiasi flotta.
Se non si ha ben presente lo scopo di un’innovazione, il suo prezzo sarà sempre troppo alto.
I frutti della guerra
Se parlare di armi “non sta bene”, rischiamo anche di ignorare il ruolo di motore dell’innovazione che le necessità militari hanno spesso avuto.
Le tecnologie dell’aviazione civile sono nate da quella militare. Il radar nato per avvistare i bombardieri di Hitler assicura oggi la sicurezza del traffico aereo. I satelliti per le telecomunicazioni o le previsioni meteorologiche, il GPS, il fuoristrada, i sistemi per la conservazione dei cibi e mille altre innovazioni sono nate per fare la guerra. La produzione industriale degli antibiotici è nata per curare i feriti della seconda guerra mondiale, e la medicina di urgenza è cresciuta durante la guerra del Vietnam. Internet è stata inventata per far comunicare i comandi americani in caso di attacco nucleare. Anche la crittografia che oggi difende la nostra privacy su Internet è nata per nascondere le comunicazioni al nemico. E il primo computer è stato costruito per decifrarle. Poche cose infatti mobilitano le risorse di un paese e la creatività delle sue menti come la sfida esistenziale di una guerra.
Anche i sommergibili, nel loro piccolo, ci hanno dato il sonar, che ha aumentato la sicurezza di ogni mezzo in mare, i sistemi di purificazione dell’aria delle sale operatorie, l’impiego sicuro e lo sviluppo industriale delle celle a idrogeno e delle batterie al litio, al centro oggi della transizione ecologica.
È giusto che sia così? Forse no.
Le innovazioni che spesso ci regala giustificano questo l’orrore e le follie della guerra? Assolutamente no.
Non potremmo mettere nell’innovazione lo stesso impegno anche senza la minaccia delle guerre? Sarebbe auspicabile, ma di fatto non lo facciamo.

La scelta di Salvatore Todaro (e la mia)
Se di innovazione militare a volte è giusto parlare, non possiamo non valutare anche chi la userà. I suoi motivi, ma anche la sua qualità umana.
Durante la visita al piccolo museo della base di Taranto, mi ha colpito ad esempio che i sommergibilisti italiani abbiano scelto come giorno della loro festa il 16 ottobre, per ricordare un fatto d’armi di cui fu protagonista proprio il comandante Salvatore Todaro, al quale è stato intitolato il mio sottomarino.
Nella notte del 16 ottobre 1940, dopo aver affondato un piroscafo belga in mezzo all’Atlantico, invece di immergersi e allontanarsi il prima possibile per evitare di essere intercettato dagli aerei o dalle navi inglesi, Todaro si ferma ad aiutare i ventisei naufraghi, che altrimenti non ce l’avrebbero fatta. Rimorchia la loro scialuppa per quattro giorni, e quando si alza il mare li accoglie addirittura a bordo del suo sommergibile, rischiando la sua missione e il suo equipaggio, e li porta in salvo alle Azzorre, a oltre 100 miglia di distanza. I tedeschi non la prendono bene. “Neppure il buon samaritano avrebbe fatto una cosa del genere” lo rimprovera l’ammiraglio Karl Dönitz, che comanda la loro flotta di sommergibili. Ma Todaro risponde con parole indimenticabili: “Gli altri non hanno, come me, duemila anni di civiltà sulle spalle”.
Ecco, a dei militari che per la propria festa non hanno scelto di ricordare un fatto di sangue, ma un gesto di umanità, si può anche affidare un’arma letale. E di quest’arma si può anche parlare.