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La fine dell’agricoltura industriale (e di quella biologica)

Ci avete fatto caso? L’agricoltura è l’unico settore in cui l’innovazione sia considerata una brutta cosa. Vogliamo il nuovo telefono, il nuovo software , la nuova cura, ma il cibo deve essere “quello di una volta”. Abbiamo anche qualche buona ragione, naturalmente. Quando però la nostalgia diventa l’unica lente con la quale guardiamo il mondo, non riusciamo più a distinguere fra la realtà e le nostre paure. O i nostri desideri. E l’innovazione si ferma, con danno di tutti. Per fortuna, una rivoluzione tecnologica è alle porte. Anzi, è già cominciata. Che renderà obsoleta l’agricoltura industriale, ma anche quella biologica. Quando accadrà, potremo avere tutto il cibo che ci serve, ma senza farne pagare il prezzo all’ambiente. Potremo tornare ad avere i nostri sapori, ma a un prezzo accessibile a tutti. C’è solo un problema: saremo disposti ad accettare che anche a tavola il meglio sia davanti a noi, e non alle nostre spalle?

L’agricoltura moderna, quella che con uno splendido ossimoro chiamiamo “industriale”, è nata un secolo fa. È nata perché quella di prima – anche quando tutto andava bene – ci teneva sempre sull’orlo della fame. Se prima un ettaro di terra ha sempre prodotto al massimo una tonnellata di grano, oggi ne produce tranquillamente dieci (il record mondiale è 16). Questo compito l’agricoltura moderna l’ha svolto benissimo. Il suo successo anzi è stato tale da farci dimenticare che il problema di produrre abbastanza cibo sia addirittura mai esistito. In effetti, per chi agricoltore non è, può essere difficile capire che bisogno abbia l’agricoltura di innovare, visto che di cibo ne abbiamo tanto e costa così poco. Infatti, ne mangiamo anche troppo.

Perché l’agricoltura industriale non ci piace

Se non riusciamo più a vedere i meriti dell’agricoltura di oggi, è inevitabile che ci concentriamo sui suoi difetti. Che comunque non sono pochi. Le piante migliorate dai genetisti nel corso del Novecento sono sì molto produttive, ma hanno bisogno di un ambiente fatto apposta per loro. Quindi di tanti fertilizzanti, tanta acqua, tanta energia, tanti pesticidi. Da allora, mille miglioramenti hanno già ridotto l’impatto sull’ambiente naturale, in qualche caso anche di molto, ma è chiaro che il problema c’è. Da questo punto di vista, l’unico vantaggio è il risparmio di terra, perché il peggiore impatto dell’agricoltura – di ogni agricoltura – è la sottrazione di territorio agli ecosistemi selvatici. Qualcuno ha calcolato che se oggi ci dovessimo sfamare con le tecnologie agricole del 1960, dovremmo mettere a coltura l’82% di tutte le terre emerse!

Ma l’impatto ambientale è poco più di un’astrazione, per noi che viviamo in città. La cosa più difficile da accettare è invece il fatto che l’agricoltura “industriale” ci abbia costretto a mangiare tutti le stesse cose. La globalizzazione del cibo. Il problema è che il miglioramento genetico è così difficile, così lungo e così costoso, che ha prodotto solo poche varietà, di pochissime specie di piante. Tutte le altre, frutto di migliaia di anni di selezione da parte di ignoti agricoltori di ogni parte del mondo, sono sparite dai campi e dalle tavole. Sopravvivono solo nelle raccolte di semi delle banche del germoplasma, o in qualche costoso farmers’ market. Insieme alla biodiversità agraria, se n’è andata anche quella culturale. Così abbiamo perduto anche ricette, sapori, tradizioni. In altre parole, parte delle nostre radici.

Ma il lusso per pochi non è una soluzione

Non ci poteva non essere una reazione a tutto questo, ed è stata l’agricoltura “biologica” (altro splendido aggettivo: può esistere un’agricoltura non biologica?). Una reazione salutare, intendiamoci. Che ha avuto il merito di portare all’attenzione i problemi dell’agricoltura “industriale” – e qualche volta anche le sue follie – costringendola a un grande sforzo di miglioramento. Sull’uso dei pesticidi, ad esempio, sono stati fatti passi da gigante. Ma l’agricoltura biologica in sostanza altro non è che un ritorno all’agricoltura dell’Ottocento, meno impattante sull’ambiente per molti aspetti, più impattante per altri: il fabbisogno maggiore di terra, la dipendenza dal rame contro i parassiti, dall’aratura contro le malerbe, dal letame come fertilizzante. Purtroppo è meno produttiva, quindi condannata a essere una nicchia di mercato per la minoranza di consumatori nei paesi ricchi che se la può permettere.

Anche Slow Food è stato una reazione salutare, che ci ha fatto riscoprire e salvare prodotti alimentari di nicchia e una filosofia del mangiare più sana, ma all’atto pratico è riuscito solo a trasformare prodotti tradizionali in consumi quasi di lusso, dalla disponibilità molto limitata, che solo saltuariamente ci possiamo permettere.

In entrambi i casi, la nostalgia si è mescolata con una buona dose di rifiuto della scienza e a un altrettanto buona dose di marketing, trasformandosi spesso in un conservatorismo agrario ai limiti dell’assurdo. In un culto del passato quasi feticistico.

In realtà, quello che appare come un conflitto di filosofie e di valori tra agricoltura “industriale” e agricoltura “biologica”, è solo un confronto fra i limiti delle rispettive tecnologie. Entrambe inadeguate. Come se ne esce?

L’information technology scende in campo

La prima strada è adattare meglio l’ambiente alla pianta.

Di fertilizzanti, acqua e pesticidi se ne è sempre usati troppi. Non per cattiveria, ma per ignoranza. Un campo coltivato non è uniforme: il fabbisogno di fertilizzanti, di acqua e di pesticidi cambia da punto a punto, ma se l’agricoltore non sa qual è, è costretto a dare la stessa dose – vicina al massimo – in ogni punto del campo. Risultato: spreco, costi più alti, inquinamento.

Oggi però nuovi sensori montati su trattori, droni o satelliti riescono a verificare i vari fabbisogni anche centimetro per centimetro, analizzando le condizioni del suolo e quelle delle piante. Sulla base di questi dati si costruiscono delle mappe digitali, che grazie al GPS e a nuove macchine a rilascio variabile consentono di dare in ogni punto solo quello che serve, e nulla di più.

Tutto questo si chiama “agricoltura di precisione”, e nelle realtà agricole più avanzate sta già riducendo moltissimo l’impatto sull’ambiente. Sta anche producendo montagne di dati che, analizzate con algoritmi di intelligenza artificiale o utilizzate da modelli previsionali, possono aiutare l’agricoltore a prendere le decisioni migliori, quindi a produrre ancora di più utilizzando ancora meno risorse.

Il miglioramento genetico che imita la natura

La seconda strada è adattare meglio le piante all’ambiente, perché abbiano meno bisogno di tutto. È quello che riescono a fare le nuove tecniche di ingegneria genetica, premiate proprio qualche mese con un premio Nobel alle ricercatrici Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna.

Il genome editing permette appunto di editare il DNA delle piante, esattamente come fa un programma di scrittura con i testi. Questo consente di migliorarle proprio come fa la natura: introducendo mutazioni identiche a quelle naturali, oppure scambiando geni fra varietà della stessa specie, come avviene con gli incroci. La differenza è che mentre la natura lo fa in modo del tutto casuale – e dobbiamo essere davvero fortunati perché la modificazione genetica sia favorevole (i genomi hanno miliardi di lettere) – oggi i genetisti possono farlo a colpo sicuro. 

Per questo i genetisti italiani hanno deciso di chiamarle TEA: Tecniche di Evoluzione Assistita.

L’altra cosa straordinaria è che le TEA permettono di migliorare le piante facilmente, in poco tempo, e con pochissima spesa. E come sempre avviene quando l’innovazione abbassa il prezzo di qualcosa, aumenta la disponibilità per tutti. Con le TEA infatti non saremo più costretti al miglioramento di sole poche varietà, da imporre a tutto il mondo. Potenzialmente, potremo migliorare tutte le varietà coltivate, anche quelle più locali. Salvando le varietà tipiche, destinate magari a scomparire perché attaccate da parassiti o finite fuori mercato. A oggi, con le TEA sono già state migliorate 140 varietà di 41 specie agrarie, fra le quali riso, pomodoro, mais, frumento, orzo, agrumi, kiwi, patata e soia. Domani, non dovremo più mangiare tutti le stesse cose.

La nuova agricoltura sarà “su misura”

Se guardiamo a cosa succederà tra cinque, dieci o quindici anni, vediamo che dall’evoluzione di information technology e TEA nascerà un’agricoltura completamente nuova, capace di superare i limiti di quella “industriale” come di quella “biologica”. Perché saprà prendere il meglio di entrambe.

Sarà un’agricoltura “su misura”, che si adatta a ogni ambiente e a ogni cultura, invece di costringere entrambi a piegarsi alle sue esigenze. Perché non dispone più solo di poche soluzioni standard (in questo davvero industriale) ma è in grado di creare soluzioni su misura per ogni esigenza.

In altre parole, information technology e TEA permetteranno a ciascuno di fare la sua agricoltura: una quindi per ogni territorio, ogni cultura, ogni filosofia, ogni sfida, ogni sogno.

Questo vuol dire anche rivitalizzare le agricolture locali, minori, quelle che più hanno sofferto dei vincoli dell’agricoltura “industriale”. Assisteremo quindi a una “deglobalizzazione” del cibo, alla restituzione di terra alla natura, a un’agricoltura tornata finalmente “normale”. Un settore come tutti gli altri.

Ma saremo disposti ad accettarla?

Per far nascere questa nuova agricoltura dovremo lasciare correre l’innovazione anche sui nostri campi. Come tante volte abbiamo già fatto anche in passato, perché un campo coltivato non è un pezzo di natura, ma di cultura. E questo può vuol dire abbandonare alcune delle nostre convinzioni più care. Come la nostra preferenza per l’immaginario “cibo di una volta”.

La psicologia dice che cambiare le proprie convinzioni è difficile ma – scusate il clicheé – questa volta è proprio il caso di ricordare che nessuno ha mai risolto i problemi di oggi con le soluzioni di ieri.