Israele, il paese troppo nuovo
A vedere i giovani europei ancora in “dad”, mentre quelli di Tel Aviv sono già tornati in discoteca, viene da chiedersi perché Israele sia il paese che ha vaccinato più persone al mondo. Ma la risposta non è ovvia. Israele ci è riuscito perché è il più digitalizzato, non perché è il più organizzato. Ha avuto subito tutte le dosi che gli servono perché è il solo paese che potrà dare in cambio i dati sanitari resi anonimi dei suoi vaccinati, preziosissimi per capire gli effetti del vaccino nelle diverse categorie di persone. Il fascicolo sanitario elettronico di ogni cittadino, da noi ancora un miraggio, in Israele c’è da trent’anni. Molti forse la prima volta sentono parlare di questo paese per qualcosa che non sia una guerra. Ma vale la pena conoscere meglio questa mini-superpotenza tecnologica che al NASDAQ ha il più alto numero di società quotate dopo Stati Uniti e Cina. E soprattutto capire come ha fatto, perché ha molto da insegnare anche a noi. Lo stesso rebranding di Israele da piccola “Sparta del Medio Oriente” a “Startup Nation”, cominciato in realtà già da qualche anno, è una storia interessantissima per chiunque si occupi di comunicazione.

Prendete un angolino desertico del Medio Oriente, senza risorse naturali, assediato da vicini ostili. Portateci uomini e donne scampati ai campi si sterminio nazisti, e immigrati venuti via dall’Europa, dall’Africa, dal resto del Medio Oriente, la maggior parte di loro senza nulla. Questo era Israele ai suoi inizi: una fantasia diventata realtà a dispetto di ogni ragionevolezza e di difficoltà apparentemente insormontabili. Praticamente, una startup geopolitica.
Tornateci settant’anni dopo e qui, di startup, questa volta tecnologiche, ne sono cresciute più di 6000. Una ogni 1500 abitanti. Quarantacinque di loro sono diventate “unicorni”, cioè società quotate più di un miliardo di dollari. Una, Mobileye, che produce sistemi per la guida assistita o senza conducente per le maggiori case mondiali, è stata venduta a Intel nel 2017 per oltre 15 miliardi di dollari. Tanto per fare un confronto, l’Italia non ha neppure un unicorno. La Gran Bretagna ne ha solo 18, che pure sono il doppio della Germania e il triplo della Francia.
Quindici startup israeliane sono entrate nel club degli “unicorni” proprio nel 2020, anno che nonostante il Covid ha visto gli investimenti in nuove società tecnologiche toccare il record dei 10 miliardi di dollari. Per fare un altro confronto, nel 2020 quelle italiane ne hanno raccolti poco più di 800 milioni.
Silicon Wadi
Le aziende tecnologiche israeliane si dedicano soprattutto al digitale, ma lo usano per fare di tutto: medicina, agricoltura, finanza, commercio, robotica, automotive. Oltre che sicurezza e difesa, naturalmente. La cybersecurity israeliana, ad esempio, difende aziende, istituzioni e infrastrutture in tutto il mondo. Nell’intelligenza artificiale, per aziende e investimenti, Israele è dietro solo a Stati Uniti e Cina e avanti all’intera Unione Europea. E Tel Aviv è il secondo centro di innovazione digitale al mondo dopo Silicon Valley. Le capacità tecnologiche che si concentrano in questa strisciolina di terra fra il Mediterraneo e il deserto sono tali che oltre 350 multinazionali – comprese alcune italiane – hanno stabilito qui dei centri di ricerca e sviluppo. Intel, che è presente fin dal 1974, sviluppa qui i suoi chip di punta.
Il “miracolo” tecnologico e imprenditoriale israeliano è però cominciato circa venticinque anni fa. Nell’ultimo decennio, la crescita economica è stata del 3,5% all’anno, e questa volta non facciamo confronti con quella italiana per carità di patria.
Se noi non ci siamo accorti di tutto questo, un po’ è perché il brand più forte di Israele è stato a lungo quello militare, e un po’ perché le sue tecnologie sono per lo più incorporate in prodotti di altri paesi, che essendo ben più grandi hanno una capacità industriale maggiore.
Il potere di un libro
Lo stesso mondo dell’innovazione, in realtà, si è accorto di Israele relativamente tardi, e lo ha fatto grazie a un libro. Sì, proprio un libro: così low tech, lento, fuori moda.
Il bello è che Startup Nation, scritto da Saul Singer, un giornalista israeliano, e Dan Senor, un esperto di Medio Oriente e uomo d’affari americano, e poi tradotto in oltre 30 lingue, non è un elenco di successi tecnologici, ma una raffinata indagine sulle radici – soprattutto culturali – del successo israeliano. Eppure proprio per questo è riuscito a ri-brandizzare il paese stesso, che sempre più spesso si fa chiamare proprio Startup Nation.
“Prima di Startup Nation facevo una gran fatica a convincere le aziende italiane a venire a vedere e a investire qui”, mi ha raccontato qualche settimana prima della pandemia Dani Schaumann, milanese trapiantato a Tel Aviv, al tavolino del bar sul lungomare che considera il suo vero ufficio. Per via del conflitto con i palestinesi e dei suoi riverberi politici ed emotivi “Israele e gli israeliani erano quasi dei paria, e non sembrava bello avere a che fare con loro. Così, quando l’ho letto, ho pensato che finalmente avevo trovato un libro che mi aiutava nel mio lavoro”. E così è stato. Non a caso da allora gli israeliani lo regalano a tutti, in ogni presentazione che fanno in giro per il mondo.
“Startup Nation non ha riposizionato solo il settore tech, ma la percezione dell’intero paese perché ha identificato la secret sauce del suo primato tecnologico nel DNA stesso di Israele, cioè nella cultura ebraica, nel servizio militare e nell’immigrazione” continua a spiegare Dani. “La chiave è stata spostare l’attenzione dal conflitto con palestinesi e arabi all’alta tecnologia, da una riconosciuta bravura nelle cose militari alla bravura nella tecnologia, da paese moralmente dubbio a paese utile.”
Poi si arriva in Israele e si scopre che – pur con le sue non poche contraddizioni – è un paese giovane, democratico e avanzato. Soprattutto molto, molto vitale. E i pregiudizi – lo posso assicurare personalmente – cadono da soli.

La ricetta: istruzione e carattere
C’è un celebre aforisma ebraico che dice “Non disturbare il ragazzo che studia neppure per ricostruire il Tempio di Gerusalemme”. Infatti l’abitudine allo studio e alla discussione è alla base della cultura degli ebrei, e oggi un israeliano in età lavorativa su due è laureato (in Italia non arriviamo al 20%). In rapporto alla popolazione, qui ci sono più scienziati e tecnici che in qualsiasi altro paese: quasi il doppio che negli Stati Uniti e in Giappone. Insieme a quella della Corea, la spesa per la ricerca è la più alta del mondo. Ben tre università sono ai vertici delle classifiche internazionali.
E poi è un paese giovane: quattro israeliani su dieci hanno meno di 24 anni, e un numero altissimo di ragazzi sa già sviluppare software.
L’altro ingrediente chiave è il servizio militare, in un paese in cui ogni giorno la guerra è una possibilità reale. Qui i giovani hanno il primo impatto con tecnologie anche molto avanzate, che le stesse forze armate in parte sviluppano o migliorano al loro interno. Soprattutto nelle unità di élite come la 8200 (intelligence), Mamram (sistemi informatici), Talpiot (tecnologie militari avanzate) o l’aviazione. Nei colloqui di lavoro, prima di chiedere in quale università ti sei laureato, ti chiedono in quale unità hai portato la divisa.
Le competenze cruciali sviluppate sotto le armi sono però umane, di carattere. Per due anni (se sono donne) o per tre (se sono uomini) i giovani israeliani vengono messi alla prova in circostanze che i loro coetanei di altri paesi non vedranno mai in tutta la loro vita. Acquisiscono così abitudini essenziali in chi crea una startup. Come il valore di completare la missione comunque, senza preoccuparsi del rispetto della gerarchia. Imparare a collaborare con gli altri e a fidarsi di loro. Risolvere problemi di iniziativa, senza aspettare che sia qualcuno più in alto a farlo. Correre dei rischi anche altissimi. O prendersi grandi responsabilità.
Il risultato è la chutzpah, un misto di fiducia in se stessi, audacia, informalità, arroganza e voglia di cambiare le cose che è tipico della mentalità israeliana.
Una lezione anche per noi
L’Italia è un paese diversissimo, naturalmente. Ma alla base, la ricetta per il successo – non solo economico – di un paese è sempre la stessa: capitale umano, iniziativa, voglia di rischiare. E un investimento fortissimo sui giovani.
Tutte cose di cui in alcuni momenti della nostra storia, anche non troppo lontana, siamo stati capaci anche noi.
Tutte cose che non si comprano con i soldi del Recovery Fund, ma che sono molto più importanti.
Tutte cose delle quali dovremmo forse cominciare a parlare molto di più.
Perché da troppo tempo stiamo facendo esattamente il contrario.