Il più improbabile degli innovatori e la forza di una bella storia
Questa è la storia di una geniale invenzione per far nascere i bambini che entrerà presto nelle sale parto. E probabilmente anche nella storia della medicina. Si chiama Odon Device ed è un dispositivo per risolvere facilmente i casi di parto ostruito, un problema che si presenta in più di un parto ogni dieci, quasi sempre richiede un taglio cesareo, e ogni anno nel mondo costa ancora la vita a decine di migliaia di mamme e a 150.000 neonati. L’ultima innovazione in questo campo è stata la ventosa ostetrica, inventata un secolo e mezzo fa. Il vero problema dell’Odon Device è stato che l’inventore era un semplice meccanico che riparava automobili, e le probabilità che la sua idea diventasse realtà erano praticamente zero. Se ce l’ha fatta, è stato grazie al potere di una semplicissima storia. Che gli ha aperto tutte le porte.

Siamo nella periferia di Buenos Aires, Argentina, alle 4 del mattino di un giorno del 2005 che nessuno si è mai preoccupato di annotare. Jorge Odon, un omone dalla pelle olivastra con una certa somiglianza con Saddam Hussein, nipote di immigrati italiani e siriani e proprietario di una piccola officina di autoriparazioni, si è svegliato di soprassalto e ora sta svegliando anche la moglie.
“Marcela, ho trovato un modo per far nascere i bambini!”
Jorge è un bravo meccanico, ma non sa nulla di medicina. Qualche giorno prima, però, un ragazzo in officina gli ha fatto vedere come si estrae un tappo di sughero caduto dentro una bottiglia di vino. L’ha imparato su YouTube. Bisogna infilare nella bottiglia una busta di plastica opportunamente ripiegata, e soffiarci dentro. La plastica si avvolge così intorno al tappo, afferrandolo. A questo punto basta tirare fuori la busta per portare fuori anche il tappo.
L’idea che balena nella mente di Jorge quella notte è di usare lo stesso trucco per far nascere i bambini. Si tratta di infilare un palloncino di plastica intorno alla testa del neonato che comincia a sporgere, quindi di gonfiarlo un po’. Una volta che il palloncino ha saldamente agganciato la testa, non resta che tirare, senza paura di fare del male al neonato perché la forza si distribuisce su tutta la superficie della testa, e non in due soli punti come avviene con il forcipe. Tutto qui. Il neonato ovviamente non soffocherebbe durante la procedura, perché respira ancora attraverso il cordone ombelicale.
“Non ho mai capito come abbia potuto associare le due cose, anche perché nessuno dei miei quattro figli ha avuto problemi alla nascita – mi confessa Jorge quando sono andato a trovarlo per raccogliere la sua storia – ma da quel momento, rendere più facile il parto è diventato la mia ossessione.”
Ma chi gli darà mai retta? La medicina non è il digitale, dove bastano una buona idea e una demo. La medicina è molto, molto conservatrice. In gioco ci sono la salute o la vita di esseri umani. In questo caso addirittura di una mamma e del suo bambino. Una nuova idea può quindi entrare nella pratica clinica solo dopo sperimentazioni lunghe e costose, e aver passato l’esame di agenzie regolatorie pubbliche estremamente caute. Senza contare che la medicina è un settore altamente professionalizzato, dove ci vogliono anni di studio anche solo per toccare un paziente. Figuriamoci cosa può fare un meccanico, e in Argentina.
Bella però questa storia, vero? Un signor nessuno potrebbe riuscire dove i più grandi medici hanno finora fallito, con un dispositivo semplice e facile da usare. È la classica storia dell’underdog, e non possiamo non provare sorpresa e simpatia per un candidato eroe della medicina così improbabile. Il suo dispositivo potrebbe risolvere un problema che da che mondo è mondo ha angosciato ogni partoriente. Potrebbe addirittura porre fine a una maledizione biblica (“partorirai con dolore”). La storia è così bella che scalda il cuore, e soprattutto si fa prendere a cuore, al punto di innescare un’incredibile “catena della buona volontà”. Mi ha aiutato a ricostruirla Mario Merialdi, il medico ostetrico italiano che ha aiutato Jorge a “mettere al mondo” la sua invenzione.

Un cuore dopo l’altro
Il primo cuore che la storia di Jorge riesce ad aprire è quello di un ginecologo del quartiere, Eduardo Leberat, che gli spiega le basi della meccanica del parto. Jorge allora si fa costruire un utero di vetro, e con un aggeggio simile a un ombrello al contrario si esercita a estrarre una bambola della figlia delle dimensioni di un neonato.
Leberat parla di Jorge agli ostetrici del CEMIC, un ospedale universitario della città, che accettano di vederlo. L’idea è interessante, ma nell’ambiente medico, a trafficare con un meccanico si può rischiare di coprirsi di ridicolo. Così lo affidano a Javier Schvartzman, un collega giovanile e simpatico, che non sembra troppo promettente dal punto di vista accademico. “Confesso che il mio primo pensiero fu ‘questo è matto’ – mi dice Javier – ma quando mi fece vedere come riusciva a tirare fuori quella bambola pensai che forse aveva avuto proprio una buona idea.” Peccato sia destinata a restare appunto solo un’idea, perché nessuno ne autorizzerà mai la sperimentazione.
Arriviamo così al 2008, quando a Buenos Aires si tiene una conferenza internazionale di ostetricia. In una pausa pranzo Javier avvicina Mario, all’epoca all’Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra. “Bella storia” pensa Mario dopo averlo ascoltato, e con un panino in mano assiste alla dimostrazione. Ma riparte da Buenos Aires con la frustrazione di non poter fare nulla neppure lui. Qualche mese più tardi, però, Mario viene invitato all’Università dell’Iowa, a Des Moines, dove è stato costruito un manichino sofisticatissimo, in grado di simulare alla perfezione ogni tipo di nascita. “Scusate, potrei mandarvi un medico argentino e un meccanico che hanno avuto un’idea un po’ assurda?”. Ascoltata la storia, gli americani rispondono che senz’altro sì. E così risponde Flavia Bustreo, direttore del Dipartimento di salute materna e infantile dell’OMS e capo di Mario, che si lascia convincere senza neppure aver visto la dimostrazione, e acconsente a pagare la trasferta di Jorge e Javier negli Stati Uniti. Dove, di fronte ai medici americani e a Mario, il dispositivo funziona perfettamente.
Questa prova trasforma un’idea al limite dello strampalato in un’ipotesi da prendere seriamente in considerazione. Ma una cosa è un simulatore di parto, un’altra mettere in gioco la vita di una madre o del suo bambino. Alla storia di Jorge, però, non si resiste. Così, dietro le insistenze di Mario e di Flavia, l’OMS autorizza e finanzia una prima, piccola sperimentazione di fase 1 al CEMIC, su trenta donne volontarie e con parto normale. In tutti i casi il parto dura solo qualche minuto e si risolve senza alcun problema. Fantastico, ma è solo l’inizio. Ora ci vuole un partner industriale. Ma quale azienda sarà disposta a sobbarcarsi anni di lavoro per produrre un dispositivo così semplice, poco costoso e quindi poco profittevole, perfetto soprattutto per i paesi poveri?
Una storia che ti fa sentire meglio
Nel 2012, al World Economic Forum di Davos, Mario e Flavia ottengono un appuntamento con Gary Cohen, executive vice-president di BD (Becton Dickinson), gigante americano dei dispositivi medici. E anche lui, ascoltata la storia nel breve tempo di un caffè, senza vedere alcun dato o pubblicazione scientifica, si lascia convincere: “Se non lo facciamo noi, non lo farà nessuno”. Così BD acquista il brevetto da Jorge. E Mario decide di lasciare l’OMS per lavorare con BD, perché sa che la strada è ancora lunga e in salita. Per motivi sia economici sia di trasparenza, infatti, l’azienda decide di non finanziare la sperimentazione di fase 2. Mario deve mettere su un’altra rete di solidarietà, ben più grande. Ma il miracolo della storia non solo si ripete. Si moltiplica.
La Fondazione Bill e Melinda Gates decide di finanziare la sperimentazione. I maggiori specialisti internazionali mettono volentieri a disposizione giornate di lavoro e tutta la loro expertise in cambio del solo rimborso del biglietto aereo. “Collaborazioni così entusiaste e disinteressate – mi spiega Mario – sono una cosa più unica che rara nei rapporti con una grande azienda, dalla quale tutti si aspettano sempre ricche parcelle consulenziali. Anche all’interno di BD le persone si offrono volontarie per lavorare al progetto, anche se servirà poco alla loro carriera. Tutti lavorano più per un piacere personale, che per interesse, perché li fa sentire meglio”. Pare che persino all’interno della Food and Drug Administration, l’agenzia americana che deve autorizzare la vendita del dispositivo, ci sia grande entusiasmo. Tanta è la voglia di dare un lieto fine a una storia così bella.
Il lieto fine – o almeno il punto di svolta – arriva esattamente il 1 ottobre 2020, quando a BIRTH 2020, il più importante congresso per i medici ostetrici di tutto il mondo, vengono annunciati i risultati della sperimentazione di fase 2 avvenuta in due prestigiosi ospedali in Francia e Regno Unito: l’Odon Device funziona ed è sicuro.
Come funziona (davvero) l’innovazione
Iter così lunghi e complicati sono in realtà la regola, non l’eccezione nella storia di ogni innovazione. Che non è mai semplice e lineare come spesso ci viene raccontata. L’arrivo di una nuova idea sul mercato dipende da una catena di “sì” in cui ogni anello la catena si può spezzare, magari per sempre. Ogni volta, tutto si gioca in un incontro, con una valutazione rapida e sostanzialmente emotiva. Un esame vero e proprio dei meriti o dei demeriti tecnologici e finanziari viene dopo.
“Le emozioni suscitate dalla storia sono state un fattore critico del successo dell’Odon Device – ricorda Mario – perché sono sempre riuscite a sensibilizzare le persone chiave. Tutte le volte che ne ho parlato, persino con doganieri o tassisti nei miei viaggi, ha suscitato interesse. Tutti si sono lasciati prendere e sono rimasti contenti di aver potuto capire, anche perché la storia si comunica facilmente in due minuti”.
La storia dell’Odon device non ci deve stupire, perché il ruolo dei sentimenti nella nostra mente è proprio quello di farci prestare attenzione alle cose, orientare il nostro giudizio, superare l’incertezza sul fatto che ne valga la pena o meno. La razionalità, i dati, le prove sperimentali vengono dopo.
Un patto con Dio e uno col diavolo
Per avere la controprova del potere dei sentimenti anche nel settore dell’alta tecnologia, basta pensare a un’altra vicenda, ben più famosa ma dall’esito alla fine opposto: quella di Theranos, la startup della giovanissima e bellissima Elizabeth Holmes, che prometteva un nuovo sistema ultrarapido, economico e preciso per diagnosticare le malattie da una sola goccia di sangue. La Holmes aveva radunato un board che comprendeva persino un ex-capo di stato maggiore delle forze armate americane, un ex-segretario di Stato, e il preside della facoltà di ingegneria di Stanford. La sua stella ha brillato per ben dodici anni, osannata dai media. Così è riuscita a raccogliere 700 milioni di dollari di venture capital e la sua azienda ha toccato i 10 miliardi di dollari di valutazione. Fino a quando è stata smascherata per la truffa che in realtà era da un’inchiesta del Wall Street Journal: la sua tecnologia non funzionava.
Quella di Theranos è una storia speculare, quasi un mondo rovesciato rispetto a quello dell’Odon Device, ma del tutto analoga in quanto costruita solo sulla comunicazione e sulle emozioni che poteva generare. Un patto col diavolo, anziché un patto con Dio, ma la morale – per chi vuole capire la forza dei sentimenti nella comunicazione dell’innovazione – è esattamente la stessa.